Dietro le quinte del Teatro alla Scala - Bnews Dietro le quinte del Teatro alla Scala

Assistere ad uno spettacolo alla Scala può essere emozionante, ma scoprire il mondo che si cela dietro le sue quinte è un po’ come guardarla con occhi nuovi: conoscere il “genius loci” del posto, i suoi labirinti, i suoi segreti, la storia che ha da raccontare, il microcosmo delle sue maestranze. Alcuni studenti universitari hanno la fortuna di avere accesso a questo luogo fisico e culturale perché sono diventati parte di queste maestranze e dalla loro posizione - apparentemente secondaria - sono osservatori privilegiati di tutto questo. Ce lo racconta Matias Pasquero che è studente di Scienze del turismo e comunità locale nel nostro Ateneo e contemporaneamente lavora come “maschera” - o quasi, come ci spiegherà - al Teatro alla Scala.

Che impressione ti ha fatto la tua esperienza fin qui?

Sono rimasto molto colpito dalle dimensioni del teatro nel suo insieme. Gli spettatori vedono l’ingresso e la sala, già di per sé rilevanti per un teatro europeo, ma la parte visibile agli spettatori non è che una parte minima dell’ambiente teatrale nel suo complesso, basti pensare al retropalco e al dietro le quinte, che sono davvero molto ampi, poi c’è lo spazio in altezza, dalla torre scenica al sottopalco che danno una profondità impressionante. Tutta questa superficie brulica di un’intera popolazione di tecnici delle luci, del suono, meccanici, elettricisti, maestri collaboratori e altri professionisti specializzati: chi si occupa del trucco o delle acconciature degli artisti, chi prepara i vestiti e così via.

Poi c’è un’organizzazione ulteriore alle spalle, che è fatta per esempio di una mensa sempre operativa, un servizio di pulizie e uno di sartoria (dove si preparano anche le nostre divise), di sale di prova, camerini, uffici, insomma è una vera e propria città che vive una vita autonoma e per farlo ha bisogno di una organizzazione puntuale perché tutte le attività devono essere funzionali al risultato finale. Per esempio, in “Tosca”, solo nel primo atto ci sono più di trenta cambi di scenografia, un numero impressionante di movimenti che richiedono grande coordinazione alle maestranze. Spesso, comunque, mi accorgo dalla reazione del pubblico che anche il solo entrare nel foyer trasmette l’impressione di accedere ad un ambiente che suggestiona, che affascina.

Qual è il tuo compito esattamente e di cosa si occupano in generale le maschere?

Dobbiamo presidiare determinate zone e abbiamo compiti diversi a seconda del settore, dal controllo dei biglietti, al dare indicazioni per i posti, all’apertura e chiusura delle porte di sicurezza e così via. Per esempio, c’è l’atrio, la zona Verdi (ossia l'ingresso delle gallerie, che un tempo si trovava in via Verdi), i palchi, la prima e la seconda galleria. Il primo incarico che viene assegnato è quello di GF, che sta per “Guardiafuochi”, che è anche il mio ruolo attuale. Noi GF ci prendiamo cura dell’atrio, della zona Verdi e delle due gallerie, queste ultime in condivisione con le maschere. Quando una “maschera” finisce il suo contratto di lavoro o per qualche motivo lascia il suo posto, chi ha fatto più prestazioni tra noi GF ne prende il posto e diventa “maschera” a tutti gli effetti, solo da quel momento può essere chiamato al servizio anche nella zona dei palchi, della platea e delle gallerie. Poi c’è “l’anticamera”, che ha un suo organico ed è una specifica zona da presidiare, gestisce i rapporti tra la sala e il palcoscenico e si occupa del palco reale e degli ospiti della direzione.

Quando sono venuto alla Scala ho sempre avuto l’impressione che si percepisca al suo interno una speciale intimità che lega il pubblico, o perlomeno buona parte di esso, una familiarità fatta di riti condivisi da tempo e forse anche di un senso di identità e di appartenenza collettivo.

Si questo in determinati momenti capita di percepirlo sulla propria pelle, per esempio quando si è di turno in via Verdi (che in realtà oggi è collocata verso Largo Ghiringhelli). Devi stare attento a chi dai indicazioni perché se lo fai con i “loggionisti” rischi che ti rispondano bruscamente “sono cinquant’anni che vengo in questo teatro, non sarai tu a indicarmi la strada”. Con i turisti o gli spettatori novizi invece è proprio quello che dobbiamo fare: ecco diciamo che dopo un po’ di tempo si impara a distinguere a proprie spese le diverse categorie di spettatori. Altre volte siamo impiegati per il “servizio taxi”, dalla parte opposta, e mentre fai il tuo lavoro senti le persone appena uscite dallo spettacolo che discutono animatamente dell’interpretazione, della regia, del direttore: in breve si creano degli schieramenti opposti che sono molto appassionati e partigiani. Da queste cose capisci l’attaccamento profondo che hanno per il teatro e il prestigio dell’istituzione. Un altro aspetto lo si osserva nella grande agitazione degli artisti prima dello spettacolo, perché comunque il pubblico può essere generoso negli applausi ma anche severo nei fischi e questo gli artisti lo sanno bene.

Come mai hai scelto di lavorare alla Scala?

Essenzialmente per pagarmi gli studi, soprattutto quelli che ho fatto all’estero, anche se ora che ho conosciuto meglio la Scala sono certo che ci tornerò anche una volta finita la mia collaborazione perché sarò molto più consapevole. Ero appena tornato dall’Erasmus e un collega con cui ho lavorato in precedenza presso un ristorante mi aveva segnalato questa opportunità. Allora ho presentato la mia candidatura; sono stato chiamato per un colloquio e sono stato preso. I requisiti sono avere meno di 25 anni ed essere iscritti ad un corso di studio, il contratto può essere rinnovato finché si soddisfano questi due requisiti.

Secondo te questa esperienza di lavoro ti potrà essere utile dal punto di vista formativo?

Io lavoro da pochi mesi alla Scala, quindi non ho ancora una grande esperienza, non ho ancora fatto una prima del 7 dicembre, per esempio, però già mi è capitato di vedere autorità, persone famose, giornalisti: pochi giorni fa per esempio è venuta la Presidente Meloni o qualche volta il Sindaco Sala. Penso che da ogni cosa che si fa si può trarre uno spunto per imparare, per esempio saper interagire con le persone, saper capire le diverse esigenze a seconda del tipo di pubblico. Posso percepire un legame col tema del turismo dal tipo di richieste che fanno gli stranieri, in base a quello che ti chiedono capisci anche ciò che vorrebbero vedere. Certamente il tour del teatro che parte dal museo e attraversa anche la zona dei palchi o la sala è molto apprezzato dai turisti, ma non si può fare se c’è uno spettacolo in programmazione. Poi ovviamente c’è la pratica delle lingue straniere: mi è capitato di dover comunicare con persone portoghesi e, dato che non sapevano l’inglese, usando lo spagnolo imparato in Erasmus sono riuscito a trovare una lingua franca.